Intervento Tra scienza e coscienza.

23 aprile 2022. L’Era dell’emergenza permanente e le ripercussioni sociali, psicologiche, antropologiche, primo intervento di Elisabetta Frezza al convegno nazionale “Tra Scienza e Coscienza”, in provincia di Bologna, organizzato da NO Lockdown Emilia-Romagna.


Il testo dell’intervento in formato pdf.

PRIMA PARTE.

Un paio di anni fa è cominciata l’era dell’emergenza permanente, utilizzata – religiosamente utilizzata – come instrumentum regni; questa emergenza cangiante infatti è il presupposto creato in laboratorio per portare a compimento un piano di conquista scritto nel dettaglio in ere precedenti.

Il regista ora ha rilanciato, cioè ha cambiato in corsa la pellicola, sfumando le immagini sulla pandemia per proiettare le immagini del conflitto in terra d’Ucraina (in entrambi i casi, però, i morti sono veri). Lo spettatore non integrato – quello che non si è fatto risucchiare dal set cinematografico, e questo in virtù di uno strano incantesimo, o forse di un anticorpo che è stato distribuito senza criterio apparente, a destra e a manca – costui, meglio di prima, ha oggi la possibilità di vedere riepilogate in un unico film le sequenze essenziali di una storia che sembra arrivata ad una sorta di resa dei conti.

Vengono alla luce, in controluce, le tante facce e le mille contraddizioni di quella modernità che ha guidato la storia contemporanea e che potrebbe imboccare a breve la via della catastrofe. Oppure quella di una qualche palingenesi. 

Coltivata in seno all’Occidente sazio e disperato (secondo la definizione di un prelato di Bologna appartenente a una specie ormai estinta, il cardinale Biffi), questa modernità sta naufragando verso la distruzione culturale e morale, politica e religiosa. Si tratta di una dissoluzione pilotata, calcolata, programmata da un Potere che esercita il sopruso e la mistificazione attraverso la sua arma prediletta: attraverso la fabbricazione e l’utilizzo spregiudicato del consenso. Il consenso, infatti, trasforma le masse – manipolate, confuse, impaurite – in un alleato ottuso e stordito, e dunque affidabile, persino indispensabile, del potere medesimo.

Si tratta dello stesso sofisticato meccanismo che è stato illustrato mirabilmente, già negli anni Trenta del millennio trascorso, da Simone Weil. Studiosa che ha passato l’esistenza a vivisezionare il corpo dello Stato totalitario in ogni sua forma, non esclusa quella cosiddetta democratica, e ad analizzare il rapporto tra questo Stato e i suoi sudditi (da Roma fino a Hitler): coessenziale allo stato totalitario è un sistema di controllo minuzioso e spietato (di cui la delazione è parte integrante), generatore di obbedienza in quanto conduce a «gelare gli animi degli uomini» attraverso «l’idea fissa del dominio, la crudeltà, la bassezza d’animo».

Nel saggio “Riflessioni sulle origini dello hitlerismo” – che ella considera come erede dell’imperialismo romano – Simone Weil dice con straordinaria acutezza che «la propaganda e la forza si sostenevano reciprocamente: la forza rendeva la propaganda pressoché irresistibile impedendo in larga misura che si osasse resistervi; la propaganda faceva penetrare ovunque la rinomanza della forza». Quanto alla forza, essa «ha bisogno di ostentare pretesti plausibili»: anche se questi pretesti sono inficiati da contraddizione e menzogna, anche se sono troppo grossolani, sarebbe un errore crederli per questo inutili: «bastano per fornire una scusa alle adulazioni dei vili, al silenzio e alla sottomissione degli sventurati, all’inerzia degli spettatori, e per consentire al vincitore di dimenticare che commette dei crimini» («il lupo della favola lo sapeva»). Infatti «l’arte di salvare le apparenze diminuisce negli altri lo slancio che l’indignazione potrebbe dare, e permette a se stessi di non venire indeboliti dall’esitazione». Così, coloro che esercitano il potere possono godere di quella «soddisfazione collettiva di se stessi, opaca, impermeabile, impenetrabile, che consente di conservare in mezzo ai crimini una coscienza perfettamente tranquilla. Una coscienza tanto impenetrabile alla verità implica uno svilimento del cuore e della mente che ostacola il pensiero».

Ecco, credo che chiunque di noi possa, senza sforzo, sovrapporre e far combaciare queste parole con persone, luoghi e circostanze dell’allestimento che, incolpevoli, ci tocca subire nell’ora presente.

Il consenso lo costruisce la comunicazione, diventata oggi scienza potentissima grazie ai potentissimi mezzi tecnici di cui è dotata. Essa produce il protagonista passivo della rappresentazione, ovvero l’uomo a una sola dimensione, sotto perenne ipnosi mediatica, lettore scrupoloso del copione che gli è stato messo in mano. È strutturalmente incapace, costui, di cogliere la complessità del reale, perché posto in balia dei meccanismi emotivi veicolati soprattutto dalle immagini. Sì che il suo mono-occhio mette in moto le reazioni di pancia, senza che il cervello – già messo fuori uso, inscatolato e sigillato – abbia modo e tempo di filtrarle e controllarle.

Per questa via dunque – scriveva ancora Simone Weil in “Oppressione e libertà” e vale ora come allora, e più che allora – «la società è diventata una macchina per comprimere il cuore» e, di conseguenza, «per fabbricare l’incoscienza, la stupidità, la corruzione, la disonestà e, soprattutto, la vertigine del caos».

L’uomo, sacrificato al meccanismo, è ridotto a una marionetta che si agita in un teatrino in cui egli è divenuto un essere sradicato, fluttuante, completamente incapace di rapportarsi alla realtà delle cose.

Grazie allo strapotere degli strumenti mediatici, assistiamo al fenomeno per il quale la storia, quella vera, può essere cancellata – ricordiamo peraltro la sintesi programmatica, folgorante, di Cingolani, tenutario di un ministero di cui non sentivamo la mancanza: «non serve studiare quattro volte le guerre puniche, servono più digital manager» – mentre la storia ufficiale viene scritta in diretta davanti ai nostri occhi usando la penna della prepotenza e il calamaio della menzogna. Confezionata con trucchi hollywoodiani per soverchiare ed elidere la realtà, o al massimo utilizzarne alcuni scampoli in modo selettivo e strumentale. Va in onda, a ciclo continuo, la parodia: deve manifestarsi soltanto la fiction, nella quale vanno immerse le mandrie, già pronte in fila per due per la transumanza organizzata in direzione metaverso: verso un mondo virtuale e parallelo che offre sollievo, sicurezza e stabilità nella alienazione.

La compenetrazione tra realtà e finzione genera uno stato di perenne dissonanza cognitiva. E all’umanoide teledipendente non resta che stemperare lo stress che deriva dalla dissonanza abbandonando ogni velleità di comprensione razionale dei fenomeni, per adagiarsi cadavericamente sulla narrazione precotta, anche se contraddittoria, anche se patentemente falsa: la gestione del cervello in conto terzi, in fin dei conti, rappresenta sempre una gran comodità.

Non resta che l’atto di fede per mettersi il cuore in pace. L’emulazione fa la sua parte, perché stare acquattati nel cuscino confortevole su cui riposa la maggioranza bovina allenta la pressione. Anche se l’altra faccia di questa interiore pacificazione dei sensi è l’odio ad extra, che monta inesorabile verso chi, dimostrando di saper conservare la forza di volontà necessaria per ragionare e per dissentire, funge da specchio impietoso della propria cecità, ignavia e codardia.

L’atto di fede corrisponde all’adesione a un repertorio di dogmi artificiali, prodotti in vitro insieme alla nuova teologia di riferimento: esso integra una vera e propria religione fondamentalista rispetto alla quale i non osservanti, ovvero quanti non prendano parte al culto, con i suoi riti, le sue liturgie, i suoi sacramenti, incarnano gli infedeli. Lo dimostra il fatto che da un paio di anni a questa parte i non conformi vanno semplicemente condannati alla morte civile, senza distinzioni di età (cioè anche se si tratta di bambini): è questo ciò che accade nel tempo sfolgorante di tutte le libertà.

Tra l’altro, si badi, ad essere vietata non è soltanto la posizione apertamente antagonista, ma anche la mera espressione del dubbio. Il che spinge il dubbioso a sentirsi in dovere di ricorrere, per potersi anche soltanto affacciare nel dibattito, all’immancabile premessa precauzionale, per tentare di mitigare a priori una divergenza che si percepisce nell’intimo ma che si ha il terrore di esternare. Nell’esercizio del moderatismo di matrice democristiana, ormai penetrato nel midollo italico, bisogna sempre esordire dicendo, a seconda dei casi: amo gli USA, Putin è un dittatore, non sono contro i vaccini, li ho fatti tutti, ho tanti amici gay, ho il poster di Obama in cameretta, eccetera. Rendiamoci conto che il clima è tale che non si ha più il coraggio di articolare un ragionamento logico senza una previa excusatio per aver ragionato, così spostandosi in partenza nel territorio del nemico e imbracciando le sue stesse armi, e dunque votandosi alla sconfitta. Bisognerebbe cominciare a liberarsi da questo automatismo cautelativo da perdenti dentro.

Ma chi è che muove le fila di questo gigantesco spettacolo? E ancora: in nome di cosa, sotto quale bandiera, si muove la macchina da guerra spinta ormai a tutta velocità (forse impazzita) verso la demolizione di un ordine, traballante quanto si vuole, ma aggrappato faticosamente alla realtà, per sostituirlo a forza con un cosiddetto “nuovo ordine” artefatto, che però è solo un disordine mascherato?

Ebbene, c’è un altro protagonista, stavolta attivo, un protagonista ingombrante che, al di là dei fatti e prima dei fatti, ha provveduto nel tempo lungo a organizzare fenomeni culturali e movimenti ideologici, ad apparecchiare le forme del potere, le tecniche di ingegneria sociale e la teologia politica che, influendo sulla conoscenza e sulle visioni del mondo, alla fine sono capaci di dare ai fatti la loro autentica colorazione. E a connetterli tutti dentro un’unica mappa coerente.

La bulimia acquisitiva di questo protagonista richiama ancora una volta la fisionomia dell’impero, come descritta da Simone Weil a partire da quello romano.

E a proposito di impero romano, non può non venire alla mente il vibrante discorso di Calgaco al suo popolo (tratto dal “De Agricola” di Tacito). Capo dei Calèdoni della Britannia, «distinto per valore e nobiltà tra i molti capi», Calgaco così si esprime sui dominatori Romani: «Razziatori del mondo, adesso che la loro sete di universale saccheggio ha reso esausta la terra, vanno a cercare anche in mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l’oriente né l’occidente possono saziare. Loro bramano possedere con uguale smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero. Dove fanno il deserto, lo chiamano pace» («…falsis nominibus imperium, atque, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant»).

Gli eventi di oggi, di varia natura ed entità, e diversa collocazione geografica, ma ai quali tutti è assegnato a priori un inedito impatto violentissimo sugli assetti della nostra vita, sono riconducibili, tutti, al programma di espansione planetaria degli autocertificati “campioni dei diritti dell’umanità”, i diffusori di pace a mezzo bombe umanitarie, come tali legittimati ad avere il compito di assumere la guida morale del mondo. Con il loro braccio armato (l’alleanza sedicente difensiva) e il loro braccio finanziario (le molteplici escrescenze filantropiche che operano sotto l’etichetta di organismi di matrice “umanitaria”), essi pretendono di esercitare erga omnes una supremazia innanzitutto morale, funzionale alla conquista della egemonia politica, attraverso il marchio della democrazia di cui si sono fatti depositari esclusivi.

Lo stigma democratico è sacro e santificante. Insomma, la democrazia è un involucro a contenuto variabile utilizzato a seconda delle contingenti esigenze di potere; lasciata in vetrina, ed esibita come la reliquia il cui possesso basta a certificare ogni superiorità; appunto morale, politica, culturale. 

Tutto questo ha comportato anche il recupero della idea della guerra giusta (di schmittiana memoria) e la relativa trasformazione dell’hostis in criminale, che, quindi, non va soltanto combattuto, ma condannato senza processo. Ed è lo stesso identico schema che vediamo applicato nella nostra quotidianità con la demonizzazione isterica del non conforme, additato come attentatore prima della pax sanitaria, poi della pax occidentale, poi magari della pax ambientale, poi chissà; in ogni caso come avversario da estirpare, indegno del consesso civile. In questa logica dicotomica, che rifiuta il pensiero e la complessità, è stato sfruttato con successo persino il meccanismo del controllo interno, reciproco e capillare, fondato sulla delazione e sulla legittimazione della ragion fattasi (giustizia fai da te). Il sicofante è il nuovo eroe: ogni epoca ha i modelli che si merita.

Bene, questa democrazia da esportazione ci ha regalato tante cose: ci ha regalato il divorzio e l’aborto liberi, l’annientamento della famiglia, le pratiche eutanasiche inaugurate con Terri Schiavo, la droga libera, il genderismo e le tentazioni pedofile, il diluvio di deviazioni pedagogiche a danno delle giovani generazioni; ci ha regalato l’ambientalismo neomalthusiano, la fabbrica tecnologica della vita e le manipolazioni genetiche, i deliri transumanisti. Ci ha regalato cioè tutto ciò che è servito a cambiare il volto di un una civiltà nel giro di una o due generazioni, spostando sull’immagine della libertà senza limiti – che è poi la ybris antica – l’esigenza idolatrica di un mondo appeso solo a se stesso e privato di ogni riferimento superiore e trascendente. Intanto noi, sudditi dell’impero, non osiamo né ostacolare né contraddire l’onda anomala di dissoluzione perché siamo già colonizzati anche culturalmente. 

La libertà, l’uguaglianza, le pari opportunità, la solidarietà, l’inclusione, la sostenibilità, la promozione culturale, la scienza, i diritti e il diritto, in una parola la falsa morale di importazione è servita per sostituire alla realtà le parole, confondendo la percezione degli eventi nel gioco delle cause e degli effetti. E facendo evaporare, proprio nel fumo delle parole magiche, tutt’un orizzonte di senso e di verità.

Vengono chiamati “valori occidentali” e, in difesa di questi valori, tutti noi siamo arruolati, anzi precettati, a giocare nel grande videogioco a premi, dove si vincono lacerti, brandelli di libertà.

Lo strumentario bellico (in senso lato e figurato) è oggi iperpotenziato dal dominio della rete e delle sue principali piattaforme, che costituiscono – in un contesto di cosiddetta guerra cognitiva – l’armamentario decisivo per imporre questi valori, per definizione globali, sostitutivi di quei valori comunitari che erano ancorati alla realtà e sedimentati nel tempo e nella storia.

Sotto l’insegna di questi valori si è realizzato un religioso riallineamento di poteri: la politica, i media, la chiesa, l’accademia, la sanità, i partiti e i sindacati. Tutti sono genuflessi davanti allo stesso idolo.

C’è dunque da riflettere sulla intestazione di questi cosiddetti “valori occidentali” inscritti nell’agenda globalista e neoliberista. Perché alla civiltà europea, più che due volte millenaria – con la sua storia, cultura, religione, antropologia – il prontuario atlantista è stato appunto imposto dai vincitori della seconda guerra mondiale, egemoni dopo la caduta del muro di Berlino: i nuovi redentori insomma, intimamente, e dichiaratamente, antieuropei.

L’assimilazione di Europa e Nuovo Mondo in un unico orizzonte di valori è in sostanza una finzione, quantomeno una forzatura strumentale a promuovere e accentuare la subalternità dell’Europa all’impero a stelle e strisce, monopolista della democrazia e perciò legittimato sulla carta a colonizzare il resto del mondo. Non esiste in natura un’ecumene euroatlantica. La verità, anzi, è che i valori profondi e millenari della civiltà e della cultura europea sono stati traditi e vengono persino perseguitati nella nuova Europa “occidentale”: lo dimostra la cancellazione della cultura classica, della storia, delle nostre radici culturali, filosofiche e religiose, di tutta una identità individuale e collettiva: un patrimonio sterminato di bellezza e di senso inghiottito dall’icona dell’Occidente faustiano che ha venduto l’anima alla propria allucinazione di onnipotenza.

Un altro grande studioso del Novecento e delle sue degenerazioni, Aleksandr Solzenicyn, autore di un’opera insieme autobiografica e corale sull’universo concentrazionario sovietico che è diventata un vero e proprio monumento letterario (Arcipelago Gulag, che raccoglie la voce di più di 200 testimoni), ha potuto guardare a questo “sistema di valori” da una prospettiva in qualche modo privilegiata. Infatti – dopo che nel 1970 gli fu assegnato il Nobel per la letteratura (che non si recò a ritirare a Stoccolma per timore gli venisse impedito il rientro in patria) – nel 1974 gli fu effettivamente inflitto l’esilio. E l’esilio lo portò a contatto con quell’Occidente accreditato come una sorta di paradiso terrestre, sul quale condusse una riflessione che in qualche modo è il prolungamento della sua speculazione sul comunismo.

Egli non resta infatuato dal mondo liberale, non lo idealizza per contrasto con la dittatura che lo aveva perseguitato, ma anzi, osservando quel mondo dall’alto a partire dalla propria esperienza estrema di purificazione intellettuale e morale, nel famoso discorso di Harvard (1978) chiarì come il rifiuto del modello sovietico non significava affatto l’accettazione del modello “occidentale”: «Se mi chiedessero: vorrebbe proporre al suo paese, come modello, l’Occidente così com’è oggi? dovrei rispondere con franchezza: no, non potrei raccomandare la vostra società come ideale per la trasformazione della nostra. Data la ricchezza di crescita spirituale che in questo secolo il nostro paese ha acquisito nella sofferenza, il sistema occidentale, nel suo attuale stato di esaurimento spirituale, non presenta per noi alcuna attrattiva».

Insomma, egli significativamente percepisce il vuoto spirituale della società occidentale secolarizzata, deculturalizzata, votata al nichilismo consumista, laicista e scientista, dove l’uomo, sradicato dai principi ultimi, dagli architravi morali che lo precedono e lo sovrastano, è ridotto alla miseria della dimensione orizzontale, e quindi staccato dalla sua natura spirituale, dalla sua vocazione e dal suo destino. Ecco perché S. è più che mai attuale, per due motivi: sia perché la sua descrizione cruda del totalitarismo svela, di questo, le caratteristiche generali e i meccanismi replicabili, e lo stiamo vedendo; sia perché il suo scandaglio appuntito non ha risparmiato nemmeno l’Occidente e il suo modello esiziale tanto quanto quello comunista. Pagg. XII, XIV.

A riprova della sua inconsistenza, il cosiddetto “mondo libero”, tronfio portatore dei valori occidentali, è quello dove si è potuto installare in un batter d’occhi, e senza colpo ferire, il sistema operativo della schiavitù: una schiavitù diffusa e consenziente, strumentale a un controllo totale sui corpi e sulle menti delle persone. Le quali hanno finito per familiarizzare con la tortura, accettare il condizionamento comportamentale e sociale spinto oltre ogni immaginazione, obbedire a tutto come scimmie ammaestrate. Del resto, la pandemia non è stata altro che un test di obbedienza e l’occasione per la celebrazione di un referendum sull’abolizione dei diritti e delle libertà, dove la maggioranza bigotta ha votato sì, piegandosi docilmente a un sistema di pseudolibertà di ritorno, vigilata e limitata, basata su meccaniche premiali; e si è trasformata così, di fatto, nel corpo di guardia del potere, nei pretoriani pronti a reprimere, ed eventualmente sopprimere, i propri simili non allineati.

La massa ovina non si pone troppi problemi: obbedisce in cambio di una brucata qua e là. E comunque, a rinsaldare e nobilitare questa modalità gregaria (cioè propria di chi è parte integrante del gregge) soccorre l’autoidentificazione con la figura del missionario, che rappresenta la più alta forma di altruismo caritatevole. Così che, appunto, anche la coscienza o quel che ne resta esce non solo pacificata, appagata, ma addirittura gonfiata di autocompiacimento. Il nuovo uomo pio, rincitrullito dai mantra della propaganda che ripete a pappagallo, odia gli empi che disertano i beoti rituali di massa, le orge scientificamente corrette, perché in qualche modo mettono in luce tutta la sua debolezza.

È così che si è creato il terreno favorevole per sbaraccare un intero sistema giuridico – quello che appartiene alla fu culla del diritto – travolgendo la gerarchia delle sue fonti, la certezza del diritto, il principio di legalità della azione amministrativa e tutti gli altri principi fondamentalissimi, nessuno escluso; e ancora, per realizzare l’esautoramento degli organi rappresentativi, la torsione e l’abuso degli strumenti costituzionali (in primis la decretazione d’urgenza), il sovvertimento delle strutture portanti dell’ordinamento, il superamento della stessa divisione dei poteri. Evidentemente l’impianto era già abbastanza tarlato e lo spirito giuridico abbastanza rammollito, proprio perché rimodellato sulle sabbie mobili di concetti fluidi e farlocchi, pronto ad accartocciarsi su se stesso. Il fenomeno degenerativo delle idee (politiche, giuridiche, estetiche) ha favorito la perdita del senso del diritto e della sua funzione quale strumento al servizio del bene comune: è diventato la mazza ferrata da brandire da chi riveste estemporaneamente una posizione di supremazia.

Sono stati svuotati di senso gli Stati nazionali, è stato svuotato di senso il diritto: è stato svuotato di senso lo Stato di diritto, a beneficio di una burocrazia decentrata, senza volto e senza responsabilità.

Il fatto è che il Potere, oggi, fa capo a una centrale operativa sovranazionale, tecnocratica. Essa utilizza come suoi sicari interni sempre le stesse pedine, fluttuanti come automi tra i principali palazzi delle istituzioni. Ciò significa che gli Stati che furono sovrani sono essi stessi ostaggio di pochi valletti subalterni a uno strapotere superiore, dai molti nomi, espressione di interessi privati: big tech, big data, big pharma, eccetera.

Al suddito non resta che subire la grande ammucchiata tra pubblico e privato, funzionale al cambio di paradigma prescritto dall’agenda: dove non arriva lo Stato liberticida, interviene dall’alto la zampa del superstato, che poi è l’oligarchia dei plutocrati senza scrupoli né responsabilità, graziosamente definiti filantropi. Ad essi è appaltata la consumazione dei soprusi seriali a danno degli individui e della comunità, in vista della soluzione finale. È un gioco delle parti, insomma, nel grande teatro dell’assurdo montato per disinnescare qualsiasi arma di difesa.

Il peso di questa prevaricazione ormai pressoché normalizzata si avverte nel quotidiano, anche perché – lo abbiamo visto – il mondo pullula di miserabili che non vedono l’ora di esercitare dispoticamente e persino sadicamente la propria fettina di potere: per loro è la rivincita inebriante all’accumulo di frustrazioni pregresse e rischia di tradursi, per le vittime, in un senso di impotenza acquisita. Di “impotenza acquisita” si parla a proposito degli esperimenti sui cani quando, a furia di ricevere scosse elettriche, essi non tentano nemmeno più di fuggire, semplicemente si rassegnano al loro destino. È lo stesso principio che sta alla base delle torture perpetrate dalla CIA per fiaccare i presunti terroristi.

Tutti noi siamo soggetti a una prepotenza continuata, esercitata con una violenza mai vista prima.

Ma le vittime sacrificali privilegiate sono le giovani generazioni, che vanno assuefatte alla sudditanza, alle quali deve essere estirpata sul nascere qualsiasi velleità di pensiero autonomo e, quindi, qualsiasi capacità di reazione al proprio annientamento programmato. Devono abbracciare una identità immaginaria, identificarsi con il proprio avatar. La loro vita va definitivamente virtualizzata. Del resto, la sorte segnata dei famosi nativi digitali è proprio quella di navigare nella alienazione nel mondo virtuale, così precludendosi a priori l’acquisizione degli strumenti cognitivi necessari per distinguere tra realtà e finzione e così subire passivamente l’imperialismo della menzogna. Nel senso letterale che ti devono invadere la vita con la menzogna, senza trovare resistenza.

Nella scuola, che è il luogo ideale per bonificare i cervelli perché ci passano più o meno tutti, si stanno rapidissimamente chiudendo tutti gli spazi di libero insegnamento, magari clandestinamente mantenuti finora grazie a qualche docente di vaglia che abbia saputo aggirare l’alluvione di programmi e progetti demenziali ispirati all’agenda globalista. Vengono erose le ultime isole di libertà e di trasmissione del sapere. Domina, su tutto, l’Agenda 2030 e il suo apparato ideologico, e tecnologico, che corrisponde a quel sistema di valori farlocchi di cui abbiamo appena detto.

Di questa scuola, ridotta ormai a una fabbrica di robottini senz’anima, parleremo nella seconda parte del convegno.

SECONDA PARTE.

La scuola è il ganglio più vitale, più prezioso e delicato di ogni società organizzata, perché riguarda il suo futuro. Espugnare l’educazione serve a impossessarsi delle nuove generazioni, un obiettivo che fa gola al potere di ogni tempo e che implica, per essere pienamente raggiunto, lo sforzo di togliere di mezzo la famiglia (o ciò che ne resta), perché la famiglia, nucleo sovrano strutturato e libero, ultima isola di autonomia morale, rappresenta la principale pietra di inciampo nella campagna di conquista. È il primo scoglio da abbattere.

La scuola dovrebbe essere il luogo dove si educa istruendo: la scuola, cioè, dovrebbe integrare l’educazione, che spetta in via diretta alla famiglia, e farlo attraverso l’istruzione: in questo senso, educa in via mediata.

Da decenni la scuola, oggetto di riforme continue e di continue sperimentazioni, sta disattendendo la propria funzione essenziale: non istruisce più, ma pretende di educare. Meglio: di ri-educare. Entra a gamba tesa in una sfera che non le compete. Con una vera e propria invasione di campo della educazione in senso stretto.

In particolare, oggi la scuola è diventata, in modo manifesto per chiunque la bazzichi, la cassa di risonanza di quella agenda globalista che è summa teologica dell’apparato ideologico di cui abbiamo già detto, creato in vitro come antagonista dello straordinario patrimonio di bellezza e di senso che si è sedimentato nel corso della nostra millenaria civiltà. Questa ne è stata infiltrata e pian piano si è sgretolata, come corrosa da un tarlo insidioso quanto vorace.

Con Dostoievskij e da ben prima di lui, anche se con meno rumore, sta uscendo di scena la cultura classica e i grandi autori della letteratura italiana. Il traguardo è l’azzeramento identitario delle giovani generazioni, la produzione seriale di invertebrati senza cultura, senza radici, senza memoria né punti di riferimento, senza più nemmeno il dominio della propria lingua (che non per nulla si dice “lingua madre”, letteralmente la lingua che ci fa da madre, perché racchiude dentro di sé una civiltà intera, la quale è vissuta e vive dentro la propria lingua).

Tutti impegnati a concentrarsi sulle proprie pulsioni, imbambolati dal suono degli slogan di ordinanza, fluttuanti nell’eterno presente ipertecnologico e globalizzato. In modo da non essere in grado, né ora né mai, di turbare o intralciare le simmetrie del potere.

Fin dall’asilo, insomma, i nostri figli devono crescere a pane e agenda.

Sappiamo che l’Agenda ONU 2030, con i suoi 17 goal, è entrata ufficialmente nel curricolo delle scuole di ogni ordine e grado (a partire dall’asilo); ci è entrata di soppiatto dentro il carro della nuova educazione civica, ovvero la nuova super-materia trasversale (nel senso che intacca tutte le altre e si comporta perciò come un asso pigliatutto) uscita dal cilindro del demiurgo statale nel 2019 sottoforma di legge (n. 92) caricata a orologeria perché formulata in modo da entrare in vigore a scoppio ritardato, a partire dal settembre 2020. Cioè, con l’inizio del primo anno scolastico dell’era pandemica. Guarda un po’ le coincidenze.

La nuova educazione civica, sfruttando un’etichetta familiare e praticamente inattaccabile, è stata accolta tra gli applausi dell’intero arco costituzionale, anche e soprattutto, per paradosso, con l’entusiasmo del fronte chiamato sovranista entrato in surreale cortocircuito logico senza neanche capirlo. Pareva brutto, evidentemente, non spendersi per una materia dal nome così carino e rassicurante, e non era il caso di andare troppo per il sottile nel voler capire cosa c’era dentro. Perché il contenuto del pacco è stato sostituito con destrezza, lucrando le referenze del contenitore: la nuova educazione civica non ha nulla a che vedere con l’educazione civica cui eravamo abituati: è un’altra cosa.

Di fatto questa riforma, dagli effetti molto più dirompenti di quanto potesse apparire a uno sguardo superficiale, istituzionalizza quella torsione strutturale che da anni si stava facendo strada nella scuola italiana attraverso due direttrici fondamentali: la sostituzione dei contenuti dell’insegnamento, e la loro monocolorazione.

Cioè: le ore destinate alle materie fondamentali (quelle materie che forniscono ai discenti le basi della conoscenza) sono state via via svuotate, per essere occupate dal basso continuo ossessivo, martellante, penetrante, fatto di ritornelli orecchiabili quanto beoti, riconducibili in blocco alla stessa matrice ideologica, a quel solito grumo di pseudo-valori di riferimento: questi ritornelli sono elastici e vengono declinati (del resto sono stati ideati per questo) in una serie inesauribile di scemenze usa e getta distribuite come becchime agli scolari a scopo di stordimento collettivo e precoce. Gli argomenti sono fungibili e integrabili a seconda dell’aria che tira, delle esigenze contingenti, dello show che va in onda in TV. Per esempio, nel contenitore della educazione civica è entrato in corsa (perché la legge precedeva l’emergenza), ad honorem, tutto il pacchetto di misure “sanitarie” ispirate alla biosicurezza e all’estremismo terapeutico: sicché, per guadagnarsi l’attestato di bravo cittadino civicamente educato, e il voto corrispondente, lo scolaro deve subire in religioso silenzio le gratuite vessazioni che gli vengono inflitte e obbedire al galateo demenziale che fuoriesca dalla fantasia perversa del despota di turno, centrale o locale o localissimo: ministro, dirigente scolastico, insegnante o bidello, tutti possono partecipare al nuovo gioco di società che consiste nel mettersi in testa il cappello magico di Napoleone e scoprire che funziona per davvero (basta munirsi di un adeguato piglio autoritario per intimidire la gente e a farle mettere da parte ogni possibile reazione che il buon senso dovrebbe suggerirle).

Ora, questi contenuti, tanto idioti quanto ideologicamente avvelenati, hanno preso il posto delle materie fondamentali, succhiando le ore a esse dedicate, che sono ridotte al lumicino. Ma non solo. Alle stesse materie fondamentali superstiti – attraverso la riformulazione dei relativi programmi, dei libri di testo, del materiale didattico – viene rifatto il trucco, perché le si spalma, e quindi le si contamina, con il cerone della nuova teologia di riferimento.

Faccio un paio di esempi pratici tratti dalla mia personale esperienza recente. Scuola dei miei figli, un liceo classico. Per tutte le classi, dalla quarta ginnasio alla terza liceo, mattinata dedicata alla formazione sulla raccolta differenziata (dentro l’educazione ambientale): progetto denominato “Ricicliamo”. Letteralmente, spazzatura al posto di italiano, matematica, greco e latino, storia e filosofia, eccetera.

O ancora: sempre educazione civica, nell’ambito del progetto “Sport e Salute”, si svolge una serie di incontri su “genere, intimità e media digitali”. Allora, a parte il nesso avventuroso tra lo sport e questa triade creativa, qui è molto evidente dove lorsignori vogliano andare a parare, con l’aiuto dei soliti “esperti” dei figli degli altri che invadono le scuole, forti del loro patentino rilasciato a norma europea. Si legge nella presentazione: «al fine di permettere un’analisi approfondita delle scelte che ogni giorno ragazze e ragazzi compiono e delle motivazioni che esse/i attribuiscono alle loro azioni, abbiamo deciso di affiancare agli incontri un’attività di ricerca che si concentrerà sul materiale prodotto in classe e sulle discussioni che ci saranno a partire dalle sollecitazione delle studentesse / degli studenti e dalle provocazioni del coordinatore, e che verranno registrate con appositi supporti». Dallo sport, dunque, si salta dritti dritti dentro l’intimità, così, fischiettando. Dove è chiarissimo, tra l’altro, l’intento di prevaricazione e di subornazione dei destinatari del progetto, attirati nella trappola per mezzo dei soliti equivoci terminologici di non immediata decrittazione. È manipolazione allo stato puro. Va sotto il nome di educazione civica.

L’obiettivo dichiarato della educazione civica nuova versione è quello di formare cittadini (ovviamente) attivi, che siano globali (cioè liquidi) e digitali, che poi è una endiadi. Puntano al medesimo bersaglio.

Perché l’ideologia, alla pari della tecnologia, ammette solo copie conformi. Ideologia e tecnologia mirano a ottenere prodotti seriali, standardizzati, abitatori del mondo sintetico degli uguali e obbedienti, incolti e formattati. Il prodotto sotto specie umana che per qualche motivo sfugga al controllo di qualità ed esca dalla filiera non conforme allo stampino della casa madre semplicemente è un errore di fabbricazione, è fallato; quindi va, ove possibile, riparato, sennò scartato. E così in modo automatico si decide chi è meritevole e chi no, chi è degno di restare nel sistema e chi deve essere fatto fuori.

A margine, la legge 92 prevede anche che gli aspiranti cittadini in erba debbano conoscere la Costituzione italiana, che va insegnata loro così come viene, da uno qualsiasi, preso a caso nel corpo cosiddetto docente. Anche questo è un aspetto significativo, perché dimostra che il legislatore non considera la Costituzione – che poi dovrebbe essere la sua stella polare – come un testo tecnico qual è, scritto in un linguaggio tecnico (com’è quello giuridico, con le proprie categorie e la propria logica interna). No: la considera tipo un manuale delle giovani marmotte, da raccontare con parole tue. E forse anche da questa sfacciata banalizzazione della legge fondamentale si capisce come mai questa venga tanto allegramente disattesa: per il legislatore è nulla più che una simpatica raccolta di aforismi a interpretazione libera.

Tra parentesi, è bello ricordare come, contemporaneamente al varo della riforma sulla educazione civica, sempre nel 2019, il Vaticano abbia lanciato l’iniziativa denominata – nel nuovo latino ecclesiastico – Global Compact on Education, che sta per: “patto educativo globale per costruire il futuro del pianeta”, così confermandosi, se ve ne fosse ulteriore bisogno, una delle tante ONG al servizio, e al soldo, dell’oligarchia sovranazionale; una ONG che porta in dote al padrone del vapore tutto il suo esercito di cappellani del potere mondano vogliosi di accaparrarsi, di questo, qualche boccone avanzato. È il nuovo modo di curare le anime, che sentitamente ringraziano.

Quindi: l’alunno deve essere formato come cittadino globale e digitale.

Il cittadino globale è un trucco onomastico, un ossimoro persino ridicolo, ma tanto nessuno si accorge del nonsenso, perché ormai si va solo a orecchio e basta che il suono della parola si armonizzi con lo spartito. I significati non contano più. In questo binomio, il grande illusionista sostituisce con destrezza la polis con la cosmopoli, e il gioco è fatto: ma il cittadino (che è l’abitatore e il difensore della sua polis, luogo in cui vive ed è cresciuto e a cui è dunque legato da un sentimento viscerale e primitivo di appartenenza), nella cosmopoli globale (un non-luogo in cui nessuno è nato, in cui nessuno è cresciuto e che nessuno conosce, ma in cui ognuno deve essere disperso) si tramuta e dissolve nell’a-polide. Il cittadino globale, dunque, è semplicemente un non-cittadino, individuo senza patria e senza identità. Proprio come lo vogliono le élite.

Il cosiddetto cittadino digitale è sostanzialmente la stessa cosa: è quello cresciuto dentro la bolla anonima del panopticon informatico, come un numero contento di essere numero, pronto a traslocare nel metaverso senza alcun bagaglio o effetto personale. La sua identità è un codice informatico, il codice a barre di una merce come le altre. Un terminale insomma, integrato con la sua appendice elettronica. Non è un’iperbole, affatto, se pensiamo che l’art. 5 comma 3 della l. 92 ha istituito la “Consulta dei diritti e dei doveri del bambino e dell’adolescente digitale”. Proprio così, testuale.

Ma, anche per questo, il terreno era preparato da tempo. Da tempo ormai i bambini sono considerati piccoli cyborg e come tali scrutati nel loro contegno a scuola in applicazione dei criteri elencati in un surreale libretto di istruzioni: bisogna dire se funzionano o non funzionano, come fossero delle macchinette. La loro valutazione – che si distingue in “valutazione di processo e di prodotto” – si articola in varie fasi; la prima di queste fasi si chiama fase “diagnostica e orientativa”, e già questo la dice lunga: in sostanza, vanno esaminati, vivisezionati e poi inscatolati il più precocemente possibile, immessi nell’ingranaggio a occupare la casella a loro predestinata.

Quanto alle valutazioni, sulle c.d. “griglie di valutazione degli apprendimenti” (tradotto: i voti e i criteri per assegnarli) si apre un mondo surreale, basta leggere qualche passaggio a campione:

«I giudizi descrittivi delle discipline sono elaborati e sintetizzati sulla base dei quattro livelli di apprendimento (In via di prima acquisizione – Base – Intermedio – Avanzato) e dei relativi descrittori, in analogia con i livelli e i descrittori adottati per la Certificazione delle competenze, e sono da correlare agli obiettivi delle Indicazioni Nazionali, come declinati nel curricolo di istituto e nella progettazione annuale della singola classe».

«Le verifiche intermedie e le valutazioni periodiche e finali rappresentano dei riferimenti ineludibili per gli insegnanti, indicano piste culturali e didattiche da percorrere e aiutano a finalizzare l’azione educativa allo sviluppo integrale dell’allievo». «Nel descrivere i processi cognitivi è dunque preferibile evitare l’uso di descrittori generici e utilizzare verbi, quali ad esempio elencare, collegare, nominare, riconoscere, riprodurre, selezionare, argomentare, distinguere, stimare, generalizzare, fornire esempi, ecc., che identificano tali manifestazioni con la minore approssimazione possibile. In tal modo gli obiettivi sono espressi così da non ingenerare equivoci nei giudizi valutativi».

Credo queste frasi siano sufficienti per capire il grado di alienazione mentale e di perversione linguistica, insomma di degrado estetico, raggiunto dal legislatore e trasmesso, a cascata, all’ampia e variegata gamma degli “operatori scolastici”, che entrano tutti in risonanza. E restano ingolfati in questo accumulo di materiale linguistico esoterico privo di senso compiuto, ma ricco di potenzialità distruttive.

In ogni caso, basta leggere un documento pescato a caso dal mondo della scuola – una legge, una circolare, un PTOF, uno vale l’altro – per avere la percezione chiara e definitiva del manicomio in cui questo mondo si è trasformato.

Per esempio, è istruttivo segnalare come nella scuola primaria raggiungere il livello “avanzato” (quello che era una volta il voto più alto, un dieci) significhi innanzitutto, come primo requisito assolto, che: «l’alunno ha interiorizzato il valore di norme e regole». Significa: che è diventato schiavo dentro. Oppure ancora: per la valutazione dei bambini dell’asilo (3/5 anni) in educazione civica, si considerano le competenze raggiunte sulla raccolta differenziata, sul rispetto delle regole sanitarie, sulla conoscenza delle parti del pc e della loro funzionalità, e sulla conoscenza degli emoticon. Non è uno scherzo. Siamo per davvero ridotti così.

Ora, con l’avvento del laboratorio pandemico, il culmine dell’abiezione è stata la diffusione della moda di introdurre nella quotidianità scolastica un meccanismo di controllo incrociato fondato sulla delazione. Con l’effetto di inculcare nei bambini la forma mentis psicopoliziesca, alimentatrice di inimicizia e ostilità tra le vittime dello stesso carnefice, che così si autoselezionino in opposte fazioni: i buoni e i cattivi, gli obbedienti e i disobbedienti, i diligenti e i negligenti. Piccoli sicofanti crescono. Educativo, molto educativo, soprattutto se letto in combinato disposto con le litanie sulla accoglienza e l’inclusione recitate in tutte le lingue in tutte le scuole. Del resto, sono state le stesse istituzioni a incredibilmente istigare, attraverso provvedimenti legislativi e amministrativi, alla discriminazione e, in ultima analisi, all’apartheid: lo hanno fatto stabilendo regimi giuridici differenziati a seconda che gli scolari fossero o no vaccinati, in applicazione di un criterio fantasanitario, di fatto punendo la decisione di sottrarre il proprio corpo o quello dei propri figli a un trattamento farmacologico in fase di sperimentazione: perché altri si può impossessare di quel corpo, per scopi che non hanno nulla a che fare con la salute del titolare.

Costretti a crescere anni cruciali della loro vita e formazione sopravvivendo dentro questo manicomio, i bambini e i ragazzi o si robotizzano, mostrificandosi, oppure semplicemente cedono psicologicamente. Nell’ultimo biennio, il deserto sensoriale, l’annientamento psicofisico, la cattività protratta, con tutta la sofferenza che ne è scaturita, sono stati il presupposto ideale del feroce ricatto sanitario: quello che, attraverso i noti raggiri comunicativi, ha indotto i nostri ragazzi ad assumere di slancio il ruolo di cavie inconsapevoli in una surreale quanto agghiacciante sperimentazione di massa. Del resto, siamo nell’era delle sperimentazioni di massa. E la scuola è un magnifico banco di prova.

L’UNESCO lo aveva detto a chiare lettere già nel 2020, quando annunciava, con lo shock pandemico, l’avvio dell’«esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione». L’alunno era il materiale di laboratorio, da testare con una serie di rituali demenziali ripetuti che si consolidassero come nevrotici automatismi comportamentali; l’alunno era il terminale, ostaggio del dispositivo informatico fornito in dotazione in predicato di diventare una protesi permanente destinata a prendere il sopravvento su di lui, prima profilandolo, poi telepilotandolo.

Ebbene, l’esperimento è riuscito, ha dato il risultato atteso. Il parziale ce lo abbiamo. Ce lo fornisce senza vergogna la stessa stampa di regime, come si trattasse di un fenomeno imprevisto e insieme ineluttabile. «I ragazzi come reduci di guerra»: l’80% degli adolescenti manifesta sintomi riconducibili a un disturbo post traumatico da stress, proprio come i reduci del Vietnam. Reparti di neuropsichiatria intasati, impennata di suicidi tentati e consumati (negli USA si parla di un tasso di suicidi infantili cresciuto del mille per cento nell’ultimo biennio). L’American Academy of Pediatrics e altre due organizzazioni sanitarie americane hanno dichiarato la salute mentale dei bambini un’emergenza nazionale.

Nevrosi assortite, danni nelle capacità di apprendimento, di comunicazione, di socializzazione, ritardi nella acquisizione del linguaggio, esplosione delle diagnosi di autismo (non ci vuole un genio per intuire le conseguenze dell’isolamento interpersonale, o dell’uso del bavaglio, o di quelle imposizioni contro natura capaci di sottrarre stimoli sensoriali decisivi per lo sviluppo psicofisico di un soggetto in via di formazione, a partire dalla mimica facciale). È evidente poi come gli esercizi di obbedienza, ritmati e ripetuti, finiscano per cementare demenziali automatismi, per inculcare ipocondria, diffidenza verso i propri simili, per indurre all’autoisolamento. Una follia, un crimine, una strage.

Sono tutti effetti previsti e voluti, quindi tecnicamente dolosi, del cocktail tossico preparato nel laboratorio di ingegneria sociale allestito in tempo di emergenza. Con l’aggravante della premeditazione.

Ora capitalizzano il risultato. E ce lo dicono in faccia.

Fioccano ovunque i convegni sui c.d. disturbi internalizzanti (ansia, depressione, ritiro sociale, problemi psicofisiologici). Psicologi – ovviamente reclutati tra gli allineati – invadono le scuole per prendersi cura degli scolari sofferenti, e bisognerebbe capire in che modo lo fanno.

Lo sforzo, ora, è quello di normalizzare una situazione gravemente patologica e di cavalcarla per accelerare il controllo e l’indottrinamento massivo.

C’è per esempio un prestigioso progetto, dal nome significativo AVATAR che sta per “Ambiente e stili di Vita negli Adolescenti: una nuova proposta di promozione della saluTe Attraverso una piattafoRma multimediale”: nasce all’interno dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa, con l’obiettivo di promuovere il benessere negli adolescenti grazie ad un approccio multi-stakeholder, che mira a creare un network tra le diverse figure e ambienti che ruotano intorno all’adolescente (famiglia, scuola, amici, comunità). 

Anche loro, come l’UNESCO, lo dicono fuori dai denti: «L’epidemia di COVID-19 ha rappresentato un’esperienza unica di isolamento sociale e confinamento spaziale…E se fino al dicembre 2019…rappresentava la forma massima di stress replicabile nei laboratori di tutto il mondo, dal marzo 2020 ci troviamo a vivere nel più grande, forse, esperimento che la Storia potesse ideare, dove ogni individuo di qualunque parte del mondo veste suo malgrado i panni di “cavia”! Questo è quanto mai vero per bambini e adolescenti che si sono trovati ad essere deprivati del “mondo sociale” che più che per chiunque altro rappresenta la linfa vitale, responsabile dello sviluppo dell’identità emotiva, culturale, affettiva».

Su queste premesse, ecco che arriva l’esperta, tale Francesca Mastorci, ricercatrice dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, e coordinatrice scientifica del progetto AVATAR. Sentite come cambia registro, rendendosi fautrice della soluzione: «è importante notare come il COVID-19 abbia chiamato gli adolescenti alla responsabilità, alla cooperazione, all’impossibilità di trasgredire, ma per loro, così resilienti per natura neurobiologica, queste rinunce potrebbero diventare un guadagno, in termini di relazioni emotive con gli altri e con se stessi. In questo il ruolo della Scuola, della Famiglia, e di tutti i contesti di riferimento, non ultimo quello della Ricerca, mai come ora devono lavorare uno a fianco dell’altra, in quel dialogo aperto e costruttivo che negli anni è stato sempre più faticoso, per rivedere ruoli e competenze e mettere in campo le basi per la definizione di una vera alleanza educativa».

Ecco quindi che: «In linea con quanto espresso nel documento “Indirizzi di ‘policy’ integrate per la Scuola che Promuove Salute”, nonché nel Protocollo Intesa MIUR – Ministero Salute, in cui si evidenzia nell’ambito del processi educativi-formativi la necessità di un “Approccio scolastico globale”, la collaborazione tra Ricerca e Scuola diventa in AVATAR elemento caratterizzante, rendendolo uno strumento per la definizione di un modello condiviso di educazione alla salute nelle scuole di ogni ordine e grado, sia a livello nazionale, che di territorio, anche nell’ambito della dispersione scolastica e della clinica. AVATAR coniuga il rigore e l’oggettività della ricerca scientifica con le necessità emerse dal sistema scolastico in materia di salute, benessere e successo formativo».

La patologia diffusa viene quindi normalizzata per decreto. Provvede l’istituzione, affidando i bambini ai mostri, che non mancano, e che spesso si aggirano vestiti da salvatori.

Ma c’è ancora dell’altro. Perché l’occasione è ghiotta e va sfruttata.

Un recente disegno di legge intitolato allo “Sviluppo delle competenze non cognitive nei percorsi scolastici” – un nome una garanzia – prende esplicitamente le mosse sempre dallo stesso presupposto («Il forzato isolamento e il disagio dovuto al Covid 19 hanno…evidenziato l’importanza delle NCS nell’affrontare l’impatto del lockdown e della didattica a distanza»). Come dire: dopo il trattamento prolungato che abbiamo riservato loro, i giovani hanno il cervello spappolato, approfittiamone.

Questa, dell’NCS, è l’ultima tappa della catastrofe cognitiva. Lo dice il nome stesso, che evoca l’abbandono di ciò che rimane della conoscenza, della teoresi, per lasciare campo libero alle «abilità legate agli ambiti emotivi e psicosociali riconducibili alle capacità non teoriche ma comportamentali, ai tratti della personalità (quali l’apertura all’esperienza, la coscienziosità, l’estroversione, l’amicalità, la stabilità emotiva), alle caratteristiche psicologiche (ottimismo, resilienza, speranza), a sistemi motivazionali, forme di autodisciplinamento, modelli di pensiero, strategie metacognitive».

Spingono a tutta velocità verso una decerebralizzazione massiva tramite l’allestimento di una catena di montaggio di umanoidi alienati alla realtà. Viene spazzata via la conoscenza, che muove alla riflessione e all’uso della logica, per trasferire i criteri della irrazionalità emotiva e sentimentale nel luogo in cui si dovrebbe insegnare, anzitutto, il ragionamento.

Il ddl è stato approvato in prima lettura alla Camera l’11 gennaio scorso con l’unanimità dei voti. E questo dimostra nei fatti come la catastrofe cognitiva abbia, prima ancora degli studenti, già definitivamente colpito la compagine parlamentare. Perché ci si lamenta che il Parlamento è esautorato, ma non si considera che non cambierebbe nulla se venisse coinvolto, a parte i tempi di produzione delle norme, perché è popolato da schiere di abusivi della politica, cioè personaggi inconsapevoli del senso stesso del mestiere che fanno, e perciò capaci solo di screditarlo e di affossarlo.

La riforma dovrebbe essere operativa già a partire dall’a.s. 2022/2023 nelle scuole statali e paritarie di ogni ordine e grado, in collaborazione con INVALSI, INDIRE, cioè tutto l’apparato pedoburocratico già steso nella scuola italiana. Fa capo al PNRR per due voci di investimento, per l’ammontare di vari milioni di euro come obolo per la creazione di una nuova mangiatoia. È espressamente coordinata, manco a dirlo, con l’insegnamento della Agenda 2030.

È prevista una formazione «obbligatoria, permanente e strutturale» dei docenti, anche qui copiosamente innaffiata di denaro pubblico. Infine, vale la pena di segnalare come il ddl affidi al ministro dell’istruzione la costituzione di un CTS per il monitoraggio della applicazione della riforma.

Alla luce di queste novità, della cornice generale e dei provvedimenti a grappolo che vi si riconducono, è evidente come ci troviamo di fronte a un cambio di passo ulteriore: come non si punti più a sostituire soltanto i contenuti dell’insegnamento, ma a modificare proprio il sistema operativo, il software, il telaio dentro il quale si deve muovere il cervello dello scolaro.

Quello che vogliono fare è cambiare il filtro che sta fra l’uomo e il mondo, e vogliono installare una valvola che giri con la loro ideologia.

L’obiettivo è destrutturare la realtà per ri-creare intorno allo studente il film che vogliono loro. Il metaverso, ovvero la frontiera prossima ventura, non è altro che un casco che impedisce di vedere la realtà, sostituita con un universo onirico allestito secondo la convenienza del potere.

Per rendere assoluto e totale il controllo sui corpi e sulle menti. E aspirare l’anima.

Alla fine, dietro tutto questo apparato ideologico racchiuso in un repertorio di formule suggestive, c’è un denominatore comune, per chi lo voglia vedere.

Trapela un odio strisciante, profondo, per la vita e per l’essere umano. Per la meraviglia e il mistero che nessuna scienza riesce a penetrare e riprodurre, per quanto cerchi di carpirne i segreti e scimmiottarne il funzionamento. In particolare, com’è comprensibile, quest’odio si dirige verso l’infanzia, che vuol dire l’innocenza (ovvero la dote con cui ogni bambino viene al mondo), che è sì fragile e indifesa, ma allo stesso tempo forte della forza di chi incarna il futuro.

Se ci prendiamo la briga di grattare appena appena ogni singolo slogan di questa farsa, ciascuna parola d’ordine dell’agenda con cui risciacquano giorno e notte il cervello dei nostri figli (ma in qualche modo hanno già lavato anche il nostro), affiora una struttura di artificio, di morte, di programmatica sterilità.

Un odio per la vita che da decenni è instillato in modo strisciante e pervasivo nelle menti e nei cuori e ora, dopo aver seminato e coltivato a lungo il terreno, sta dando i suoi frutti avvelenati, perché i tempi sono maturi.

L’insulto alla vita viene inferto da tempo attraverso mille direttrici concorrenti, tra le quali si stenta a vedere il collegamento, pur tanto evidente: pensiamo alla martellante propaganda abortista, portata oggi fino al parossismo con la legalizzazione dell’infanticidio, ma anche ai modi più subdoli e striscianti di promuovere l’anti-vita e il contro-natura, magari dietro la maschera della vita: pensiamo agli artifici della provetta, alle stregonerie terapeutiche, alla predazione degli organi che implicano il cuore battente, e poi ancora alle alterazioni di sesso (con annesse mutilazioni e sterilizzazioni), all’incenerimento dei corpi post mortem, macabra moda ormai dilagante, che piace alla gente che piace oltre a fare un grande favore collaterale a coloro cui conviene occultare i corpi dei reati.

Ma oggi l’aggressione alla vita giunge fino alla manomissione del suo codice fondamentale, della sua struttura più profonda, il genoma. Ora, questa manomissione viene praticata in modo massivo e seriale sia con l’eugenetica prenatale (nella produzione in laboratorio di esseri umani bioingegnerizzati con la tecnologia CRISPR), sia con la somministrazione di farmaci sperimentali a mRNA che, alla fine, si basano su una formula bioinformatica concepita per interferire col materiale genetico della cellula umana, ricondizionando il suo dna: si intacca così, in modo evidentemente irreversibile, la linea germinale umana, compromettendo la discendenza. Sbaglieremmo a non cogliere il nesso tra queste due operazioni biotecnologiche e bioinformatiche estreme, la diffusione del CRISPR e dei farmaci di nuova generazione: eugenismo e transumanesimo si intersecano in un programma dalle radici antiche che ora, grazie alla corsa forsennata della scienza senza morale, giunge al culmine della perversione. L’uomo che gioca a fare Dio pretende di dominare ogni parte della natura, compreso il suo linguaggio più interiore, la genetica, per ottenere il controllo assoluto sull’essere umano inteso come terminale, come ultima interfaccia computazionale.

Per questa via è ovvio che si finisca per cedere alle multinazionali del farmaco il rubinetto della vita e anche il controllo e la gestione del proprio dna, sconvolgendo una volta per tutte l’assetto biologico che la natura ha consegnato a ciascuno di noi: bigpharma, in altre parole, intraprende la scalata per acquisire il controllo del nostro corpo, col risultato che esso perde la capacità di autogestire le proprie funzioni vitali, per dipendere definitivamente da un azionista alieno.

Già nel lontano 1996 Bill Gates diceva che «il gene è il software più sofisticato che ci sia», dimostrando di avere ben presente la meta: un “modesto” programma di controllo del mondo attraverso l’informatica della vita. La cui realizzazione implica la distruzione dell’uomo come imago Dei e costituisce l’estremo esito cibernetico della ybris antica (l’etimo del termine “cibernetica”, non per nulla, è il controllo. Kybernètes = nocchiero, colui che governa la nave). L’uomo è ridotto a un codice informatico.

C’è chi vuole il nostro male e il male dei nostri figli, e non lo nasconde. Tutto, oggi, pare progettato per offenderci e per cancellarci. Contro questo piano diabolico che punta alla abolizione dello statuto dell’umano non possiamo fare altro che combattere. Per farlo, dobbiamo vivere, dobbiamo esistere, dobbiamo riprodurci, proteggere ad ogni costo la nostra integrità e quella di chi ci succede.

Servono uomini renitenti alla leva della menzogna che sappiano guardare oltre i reticolati dei nuovi lager tecnologici e regalarci la speranza di esserne liberati.

Mi piace ricordare un breve testo, ma particolarmente succoso, diffuso qualche mese fa dagli studenti contro il GP di Roma.

«NON OBBEDIREMO A NIENTE. Non siete il nostro governo né la nostra rappresentanza. Non siete né leader né presidenti; non siete ministri, né uomini di stato. In effetti, non siete neanche uomini. Siete vuoti e per questo perderete. Siete burattini della vostra stessa ombra e le vostre leggi sono figlie sterili di governi sterili. Noi, invece, siamo la generazione fertile, che ripopolerà la storia di uomini e non di macchine. Non lo faremo con le spranghe né le barricate, perché altrimenti non saremmo altro che l’ennesima versione di voi stessi. Lo faremo con la lucidità di un dissenso silenzioso e costante, senza gridare, senza metterci in mostra. Saremo l’acqua che vi entra nelle scarpe e nei vestiti, saremo il mare che eroderà le vostre dighe, perché NON OBBEDIREMO A NIENTE».

Questo cataclisma, insieme allo smottamento epocale e al suo portato di sofferenza, ha avuto un effetto collaterale importante e foriero di speranza, e non poteva che essere così, perché non è certo un pugno di miserabili a guidare la storia: si è riacceso nei cuori un fuoco spento e un istinto dimenticato.

Non siamo artefatti, non siamo OGM, non siamo cose soggette allo statuto delle cose: siamo altro, abbiamo in noi la meraviglia della imperfezione e la straordinaria unicità dell’essere umano.

Ciascuno ha il suo tratto di strada da percorrere, un tratto di strada che è unico e non ripetibile. Che ci è stato dato assieme a delle garanzie: un genoma esclusivo, che appartiene solo a noi; un destino esclusivo, che appartiene solo a noi. L’unione di questi due beni scrive il libro della vita, la cui trama è fatta su misura per ciascuno di noi e affidata alla nostra cura.

Lewis in “Quell’orribile forza” scrive che, a un certo punto della storia, c’è sempre un momento dopo il quale «ci sarà ancora meno spazio per l’indecisione, e le scelte avranno conseguenza ancora maggiori». Sì che, da quel momento in poi, «il bene diventa sempre migliore e il male peggiore: le possibilità di una neutralità anche solo apparente continuano a diminuire». Pare che ci siamo arrivati.